lunedì 20 ottobre 2014

Majčina dušica

Il buon, vecchio Petar è seduto vicino a me, mi offre una rakija di prugne e inizia a raccontare.

Di come qui, a Klina, paesino della Metohija, quella Metohija il cui nome non si può nemmeno pronunciare nel nuovo Kosovo albanese e monoetnico, “liberato” dalle bombe della Nato e degli Usa, le cui bandiere sventolano da balconi di case private e da pennoni di fiammanti pompe di benzina, banche e hotel, la vita sia diventata impossibile. “Una volta, qui, c’erano solo serbi”, mi dice Petar... “Se vai al cimitero albanese, te ne accorgi. Le date riportate sulle tombe hanno date recenti, dal 1999, dopo i bombardamenti, a oggi. Il nostro, di cimitero, abbandonato, con le tombe divelte, difficile da visitare per il pericolo di violenze dei fanatici estremisti, ha tombe che risalgono a tanti anni fa. Puoi capire tante cose, andando a vedere questi luoghi”.

Da lontano, a poche centinaia di metri, si odono spari, clacson, grida. E’ finita la partita fra Serbia e Albania, gli albanesi festeggiano.... “Cosa festeggiano, Petar?” – “Festeggiano l’idea della grande Albania, festeggiano l’averci umiliati a casa nostra, a Belgrado, festeggiano il nostro peso internazionale, nullo. Avessimo fatto la stessa cosa noi, come quando dovemmo vergognarci per quei delinquenti a Genova, sarebbe stato il finimondo, Vedrai, alla fine incolperanno solo noi, anche stavolta. I nostri politici sono burattini, non si fanno rispettare!”.

Forse, però, è meglio così, penso. Avesse vinto la Serbia o l’Albania, avremmo avuto reazioni anche peggiori e più violente. “Di questo puoi stare sicuro!”, aggiunge.

Klina è poco distante, una mezz’ora in macchina, da Velika Hoča, dove ogni anno, il 12 ottobre, si festeggia il Miholjdan, festa religiosa ma anche laica, visto che è la festa del vino. Ma da queste parti, sacro e profano vanno straordinariamente a braccetto, da sempre. Io visito chiese e fotografo affreschi. Padre Milenko, avvisato dai monaci del monastero di Dečani, mi accoglie volentieri e mi parla della storia del posto. Poi, mi da le chiavi delle chiese che visito con Miloš e Zoran, amici che mi accompagnano.
un "selfie" davanti san Luka, con i miei "assistenti"
Sono 15 chiese, quattro ormai ridotte a poche pietre a terra, che sarebbe meraviglioso ricostruire, altre due di cui non si sa neppure dove e se davvero furono mai realizzate. La chiesa di santo Jovan è stata imbiancata da poco. Durante i lavori di ristrutturazione, eseguiti da una ditta albanese, alcuni operai dovevano andare sul tetto a togliere la croce. Ma si sono rifiutati, memori della malattia che colse il ragazzo che distrusse una croce sul tetto della chiesa di Podujevo, durante il pogrom anti serbo ortodosso del marzo 2004... “Quello è finito troppo male!”, hanno detto a Milenko.
Velika Hoča, monastero di sveti Nikola

A Dečani, intanto, scritte inneggianti all'Isis sono apparse l'altra mattina sulle mura di cinta del monastero. Non è una goliardata, hanno arrestato anche sedici imam a Priština, il mese scorso, per collaborazioni col fondamentalismo. Ma non è la prima volta, poche settimane fa scritte esaltanti l'Uck avevano imbrattato i portoni del monastero, prove tecniche di "grandi albanie" che, pure, non vanno sottovalutate. Un monastero, quello di Dečani che, ricordiamolo, nostri "valorosi militari" sorvegliano 24 ore su 24! Ovviamente, il giorno dopo erano tutti in allerta, per la serie: chiudi la stalla dopo che son scappati i buoi!
monastero di Dečani, scritte inneggianti all'Isis
Oggi c’è stata la slava, festa del santo protettore, al patriarcato di Peć. Sono stato a fotografare gli affreschi di Danilo II, l’arcivescovo, biografo, architetto e curatore artistico in uno dei periodi più fervidi del regno di Serbia, dai re Milutin e Stefan Dečanski fino allo zar Dušan. Una signora mi chiede un foglietto, deve lasciare un messaggio per le preghiere dei prossimi giorni. Lo prende, ci scrive sopra cose, lo lascia sull’altare e poi va a pregare davanti l’icona della Madonna, donata a san Sava nel suo viaggio a Gerusalemme.
patriarcato di Peć, la tomba di Danilo II

Il vecchio Petar non è venuto, c’è stato tante volte e gli fa male vedere quel manifestino attaccato al portone di ingresso al patriarcato, quello che ricorda i sei ragazzi uccisi nel 1997, quando pochi si interessavano a quello che succedeva in Kosovo, con molti serbi che venivano fatti sparire dalle bande criminali dell'Uck.

in morte di Vuk, Ivan, Svetislav, Dragan, Ivan e Zoran 

Petar si ricorda anche del patriarca Pavle, del suo cammino fra la gente, della sua umiltà e santità, degli attacchi subiti da squadracce terroriste dell’Uck.... “Oggi anche la chiesa sta cambiando, fanno entrare tutti nei monasteri, anche gli americani che ci hanno bombardato e che proteggono questi delinquenti al potere oggi!”.
il patriarcato di Peć
Sono parole forti, quelle del buon, vecchio Petar, forse ingenerose verso chi, in ogni caso, sta cercando di salvaguardare una cultura millenaria dai pericoli dei nostri giorni. Allora, le addolciamo con un’altra rakija, prima di andare a dormire. Domani mi attende un altro viaggio che da Klina mi porterà a Novo Brdo, vicino Gnjilane, in Kosovo. Perché il vero Kosovo è quello ad est, questa, a ovest, si chiama Metohija e non mi stancherò mai di ripeterlo. E’ nome più vecchio dell’altro, coniato nel primo medioevo quando i primi regnanti serbi della dinastia Nemanjia, lasciavano grossi possedimenti a monasteri che fondavano per la propria sepoltura. L’anima contava più della terrena materia, a quel tempo.

Ma lungo il corso dell’Ibar, che ieri mi ha portato fin qui, passando per monasteri dal valore storico enorme, unico anello ancora esistente e tangibile (quelle mura le puoi toccare con le mani...) fra la Roma cristiana e papalina e l’Oriente cristiano e bizantino, ancora oggi, a primavera, puoi respirare il profumo dei lillà che riportano a storie romantiche e molto terrene, fatte di accoglienza e pensieri felici.
la chiesa di stara Pavlica

Passando per monasteri come quelli di Studenica e Sopoćani... chiese quali Nova e Stara Pavlica (nuova e vecchia chiesa di san Paolo)... sveti Petar, la più antica della Raška, regione a sud della Serbia dove nacque lo stato medioevale serbo... fino a Gradac, dove è sepolta la regina Jelena Anžuiska, Elena d’Angiò, andata in sposa a re Uroš I, terzo figlio di Stefan Nemanjia, detto “Primo Incoronato”, che ricevette la corona direttamente dal papa romano, Onorio III, nel 1217... ci sono storie che affascinano il visitatore.

Famosa è quella dei lillà che proprio re Uroš fece piantare lungo il corso dell’Ibar, divenuto da allora la “Dolina Jorgovana”, la valle dei lillà, per accogliere nel miglior modo possibile la sua futura sposa. Ancora oggi, a primavera, una festa ricorda la storia della regina più amata dai serbi, nobile d’animo, gentile, che promosse arte e cultura in un rapporto stretto fra l’occidente di provenienza e l’oriente di adozione.

Oppure, a Ljubostinja, nella valle della Morava, in Serbia centrale, dove la principessa Milica, sposa del principe Lazar morto nella famosa battaglia del 1389 contro i Turchi, radunò le vedove dei cavalieri serbi martiri della battaglia, formando una comunità monastica e seppellendo i resti dei propri cari nel giardino del monastero stesso, con i corpi che furono stipati in piedi, per sfruttare al massimo lo spazio, altrimenti insufficiente ad accoglierli tutti. La leggenda narra che proprio questo fosse il luogo dove Milica e Lazar si innamorarono...
Le spoglie di Milica riposano, dal 1405, sotto quattro metri e mezzo di terra, al segreto riparo dai turchi invasori e predatori.
monastero di Ljubostinja
Quando Pietro Karadjordjevic I, il re delle guerre balcaniche di liberazione dai Turchi, cercando la corona d'oro di Lazar nella tomba di Milica, corona che non trovò perchè i Turchi l'avevano già trafugata a Istanbul dove si trova tuttora, riportò alla luce le spoglie della principessa, gli apparve il suo corpo intatto. La leggenda narra che rimase immobile, in piedi davanti a lei, per tre giorni. Quando il viso di lei iniziò a dare segni di decomposizione, si decise a ricoprirne le spoglie. E, da allora, la principessa non fu più disturbata.  

A Ravanica, invece, riposa il principe Lazar, i cui resti furono portati via nel continuo peregrinare del popolo serbo negli anni bui della dominazione turca, per non lasciarli finire nelle mani dell’invasore che li avrebbe volentieri bruciati, come fece con quelli del santo Sava, fondatore della chiesa serba ortodossa, bruciati con enorme falò, visibile da tutti, su una collina a Belgrado, dove oggi sorge la basilica a lui dedicata.
monastero di Ravanica
Storie di tempi lontani ma ancora così vive nella cultura serba, spesso narrate da vecchi poeti accompagnati dal suono delle gusle, antico strumento monocorde, suonato come un violoncello nelle serate d’inverno, davanti alla stufa. Storie alle quali se ne aggiungono di attuali, come quella che vivo direttamente a Draganac, che neppure il buon vecchio Petar conosce.
le gusle
Arrivo nel pomeriggio al monastero di Draganac, dove il mio amico padre Ilarion mi da il benvenuto. Mi mostra i lavori al monastero, da tempo in fase di ristrutturazione e mi porta a fare una passeggiata sulle alture che lo circondano. Un pozzo appena realizzato, una grande cisterna in fase di realizzazione sull’altopiano vicino, dove un monaco da Dečani lavora con una grande pala meccanica. Un profumo intenso si fa largo, fra funghi, silenzi e paesaggi di natura incontaminata, che celano le origini del principe Lazar, nato proprio in un paesino lontano ma visibile alle nostre spalle, Prilepac. Quassù in alto, Ilarion vorrebbe realizzare una fontana...

“Qui c’è acqua, dalle sorgenti intorno viene spinta fino quassù, non servirebbe andare troppo nel profondo per trovarla...”. – “Ma cos’è questo profumo intenso, Ilarion?” – “Questo profumo? Questo è “l’anima della mamma”, si dice così da noi. E’ la majčina dušica” (si pronuncia: màiccina dùsciza, il timo).

Poco lontano Ilarion vede delle persone al lavoro nei campi. Li chiama, li saluta, mi dice “se sono serbi risponderanno!”. Infatti, rispondono e ci invitano a prendere un caffè. Dovrei andare, ma mi lascio guidare, come sempre, qualcosa da raccontare ci sarà.

Dragan, sua moglie e il figlio stanno lavorando alla loro vigna, da dove Dragan coglie dell’uva che ci offre con gentilezza. E’ buona, dolce. Passiamo per un campo recintato, che stona con la natura libera e selvaggia che circonda. Le scritte sul muro della casa di Dragan, inquietano. Inneggiano alla grande Albania, anche qui, in questo luogo sperduto, il fanatismo etnico non si concede pause.
Draganac, scritte inneggianti alla grande Albania

“E’ un albanese, che s’è recintato dieci ettari di terra dopo averne acquistato un quarto da un vecchio serbo che, però, aveva anche dei fratelli, i quali non erano né informati né d’accordo con la vendita. L’albanese lo sapeva, ha pagato pochissimo a un intermediario per un pezzo di terra indefinito, ma ora s’è preso tutto. E il vecchio serbo, non ha visto nemmeno un euro. Ora abbiamo chiesto giustizia, ci sarà un processo...”.
Storie di truffa, stridono con le storie di lillà, innamoramenti e sepolture gloriose. Ma è l’attualità. L’albanese sta provando in tutti i modi a cacciare anche questa famiglia serba, che vive miseramente fra questi fatiscenti, vecchi casolari e che ci offre uva, acqua, biscotti, rakija e caffè...

“Tempo fa, tornavo in bicicletta, mi hanno superato con la macchina, sono entrati dentro casa mia, hanno sporcato dappertutto. Quando sono entrato ho pianto dalla rabbia e per l’umiliazione, ma poi ho pulito tutto e ho ricominciato. Ci minacciano, ma dove posso vivere, se non qui? Non ho altro...”.

Ritorniamo verso il monastero, in silenzio. Il profumo del timo, l’anima di mamma, ci accompagna. Fra sogni di fontane e di giustizia, mangiamo l’uva che Dragan ci ha donato. E’ buona, dolce.