mercoledì 23 dicembre 2009

Appello per la protezione delle minoranze serbe e dei monasteri ortodossi in Kosovo e Metohija

L’annunciata drastica riduzione del contingente Kfor (compresa la prevista diminuzione del contingente italiano da duemila unità a cinquecento), attuata in risposta alle richieste Usa di un maggiore impegno nella guerra in Afghanistan, rischia di alimentare ulteriormente il dramma che da oltre un decennio vivono le popolazioni di Kosovo e Metohija, che in questo modo si vedrebbero abbandonate al proprio destino.

Preoccupati della sorte dei villaggi serbi che da più di dieci anni vivono sotto protezione, isolati, ghettizzati, minacciati dalle frange estremiste e violente del terrorismo ex Uck oggi al potere… preoccupati per la sorte dei monasteri ortodossi, patrimonio culturale dell’umanità intera, la cui distruzione è stata tentata e realizzata con la perdita definitiva di circa 150 monasteri della regione… con la reale possibilità che un popolo intero, che da secoli abita il Kosovo e Metohija scompaia definitivamente dalla propria terra, ci appelliamo:

a personalità della politica, della cultura, dell’arte e a tutte quelle associazioni del pacifismo militante, che da anni si sono impegnate per ristabilire la verità storica di quanto accaduto nella ex Jugoslavia e in Kosovo e Metohija, in totale contrasto con quanti hanno di fatto cooperato al distacco definitivo del Kosovo dalla Serbia e della comunità serba dal Kosovo, affinché:

- di fronte alla situazione venutasi a creare in questi anni nel Kosovo e Metohija, di fatto controllato e governato da clan malavitosi retti da ex criminali di guerra che hanno impedito lo sviluppo di ogni possibilità di dialogo fra le parti in causa, l’Italia faccia un passo indietro e si pronunci contro la proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, in questi giorni in discussione presso la Corte di Giustizia internazionale;

- si denunci con forza che in questo momento storico, senza che si siano realizzate le condizioni minime e sufficienti a preparare il terreno per un ritiro totale delle truppe, la drastica diminuzione del contingente italiano in Kosovo e Metohija, posto a garanzia della minoranza serba e dei monasteri Ortodossi, abbandonerà a se stesse tutte le realtà “resistenti” nella regione, fatte di villaggi abitati da serbi e poche altre etnie (compresi quegli albanesi non collusi con mafia e terrorismo), da monasteri e cimiteri ortodossi, patrimonio culturale e artistico dell’umanità;

- si lavori affinché tutte le parti in gioco nel Kosovo, comprese le confessioni religiose, tornino a recitare il proprio fondamentale ruolo nel rispetto dei diritti di tutti;

- si arrivi alla istituzione di una commissione internazionale che verifichi la situazione delle proprietà abbandonate dalla popolazione serba in fuga, per poi procedere alla restituzione del patrimonio ai profughi, perché questi possano rientrarne in possesso, smascherando chi se ne è illegalmente impossessato.

Tutto questo perché si possa restituire il territorio del Kosovo e Metohija a tutti coloro che, da sempre, in quel territorio hanno convissuto.

A nostro avviso, il ruolo dell’Italia potrà tornare determinante, come lo fu per la sciagurata scelta dell’intervento armato. E, per una volta, potremo essere d’accordo.

(per le adesioni: http://www.unponteper.it/sostienici/petizione.php )

primi firmatari dell'appello: associazione Un Ponte per…; Lidia Campagnano; Marco Santopadre (direttore Radio Città Aperta); Riccardo Pilato (Zastava Brescia); Matteo Calamandrei; Bruno Maran (Padova); Ivan Pavicevac (redattore radiotrasmissione "Voce Jugoslava"); Milca Ostojic (corrispondente stampa serba); Chiara e Alessandra Di Giorgio; Stefano Giuseppe Magni; Stefano Bacchetta (insegnante elementare); prof. Giorgio Barone-Adesi (Facoltà Giurisprudenza università Catanzaro); Cristina Garreffa (architetto); Paola Salvi (Un Ponte per...)...

mercoledì 16 dicembre 2009

L'Urlo del Kosovo

Non racconterò, stavolta, di missioni, di iniziative, di progetti o progettini, come i professionisti della cooperazione sanno chiamare quelli che in questi anni abbiamo realizzato fra i dimenticati della Serbia. E non farò relazioni. Stavolta no.
Del resto, che c'è da raccontare?
Abbiamo incontrato dignità e disperazione, negli occhi di persone che non sanno più come andare avanti, rabbia e impotenza, negli occhi di chi si batte contro ingiustizie e malattie, vigliacche come le bombe che cadevano dalle nuvole, invisibili quanto gli assassini che le hanno sganciate. Vite che vanno comunque avanti, anche senza un perchè.
E non sembrano esserci più perchè a cui rispondere, oggi. In Kosovo, in Serbia, ovunque.

Il perché di una guerra, che ha regalato storia, arte, cultura, vite umane a mafie e narcotrafficanti, oggi al potere nel Kosovo. E ha consentito l’orribile traffico di organi, espiantati ai tanti serbi fatti sparire nel nulla dal terrorismo Uck, mesi, anni prima della guerra “umanitaria” e per i quali non ci sarà mai più giustizia.


E allora, racconterò del ritorno, fatto di stanchezza, solitudine, crisi e lacrime soffocate.
Per quella figura esile, minuta, furtiva come ombra, nel buio del monastero di Gračanica, che mi veniva incontro. Come anime di purgatorio, ci siamo rivisti, in quel buio, in quella solitudine…
Vi ste Irina sestra?” – “Siete suor Irina?
Da”, "Si", era lei e si è ricordata del nostro primo incontro, quattro anni fa, quando Irina mi raccontò delle sue visite periodiche e sotto scorta, ai pochi villaggi serbi scampati al pogrom del marzo 2004, villaggi nei quali svolgeva la sua professione di medico pediatra, curando e assistendo bambini.
Il volto non è più lo stesso, quello fresco e vivo di allora. Anche il mio non lo è più.
Zima” avanza sui volti, sulle pietre, sulle strade, regno inaffidabile di nervosi e ambigui passanti, che fanno tappa in un caffé. Gračanica di notte.
Inverno” avanza, imbianca destini e ti lascia dentro solo voglia di piangere.
Per tutti quei monasteri che, lontano da Gračanica, rischiano di sparire per sempre. Per tutte le suor Irina che rischiano di non avere futuro nel loro Kosovo e Metohija, da sempre la loro terra, la terra dei monasteri.
Quei soldati davanti l’ingresso del monastero presto se ne andranno. E se non lo faranno loro, lo faranno gli altri, schierati oggi a salvaguardia dei pochi serbi rimasti a vivere, isolati e ghettizzati, nei propri villaggi, mezzo distrutti accanto ai cimiteri dei propri cari.
Lanceremo un appello, fatto di parole, ponderate ed equilibrate, perché tanti possano sottoscriverlo e aderire a quel grido di disperazione e paura che, però, TUTTI!, dovremo urlare al mondo, unendoci a quell’albero, bruciato fin nelle radici ma che Boško ha portato in salvo, strappandolo al Kosovo e Metohija “liberato”, realizzandone scultura a simbolo di tutto il dolore e disperazione di un popolo umiliato, sventrato, avvelenato, defraudato.
Urlo lanciato per tutto quel patrimonio umano, culturale, artistico, a rischio sparizione, ma pure per quell’ombra, che non so togliermi dagli occhi e dalla mente… ombra che avanza, nel buio e nella solitudine di un monastero, uno dei tanti, bellissimo ma spento, isolato e buio, protetto da militari ignari e distanti, stonati e inaccettabili.
Quell’ombra, a simbolo di tutte le altre che il Kosovo inghiotte, ormai da anni, nell’indifferenza generale.
No, scusatemi, ma non mi riesce di vedere né di sentire altro, oggi, se non quel buio e quella solitudine… niente altro, se non quella voglia grande che ti soffoca la gola, impazzisce il cuore, allaga lo sguardo… paura di morire, insieme a tutto questo.

giovedì 3 dicembre 2009

Kosovo e Metohija, è scattato l’allarme!

L’allarme è scattato.
La Nato, padrona della politica estera di molti paesi, fra i quali il nostro, l’Italia, sia essa di Berlusconi, di Fini, di Prodi o di D’Alema, chiama a raccolta. Servono più militari in Afghanistan e, nonostante il disperato appello a Obama di Michael Moore, vedrete che li manderanno. Solo che l’Italia li prenderà soprattutto dal Kosovo, ormai in completa svendita, che sta per essere abbandonato anche da Belgrado, ancora una volta imbrogliata da un piatto di lenticchie, come la prossima liberalizzazione dei visti, tenuta sotto scacco dalla paura di guastare i rapporti con la comunità europea.
Sarà inutile, dunque, il prossimo viaggio a Roma e a Bruxelles di padre Sava, vescovo delegato della chiesa ortodossa serba e di padre Teodosije, vescovo di Dečani, per chiedere che le forze Kfor a tutela dei loro monasteri non smobilitino?
Senza una presa di posizione forte e chiara soprattutto di quelle realtà associative della società civile non colluse con la spartizione dei fondi, di provenienza USA e Germania, riversati nell’area con intento evidente di favorire quell’associazionismo la cui attività di fatto avalla la indipendenza unilaterale, puntualmente proclamata… senza una presa di posizione di queste realtà che da anni si sono impegnate per ristabilire la verità storica di quanto accaduto nella ex Jugoslavia e in Kosovo e Metohija, forse si, sarà inutile.
Perché tutti i monasteri e, di conseguenza, i villaggi serbi che ancora resistono in Kosovo e Metohija, il Kosovo e Metohija in mano ai criminali di guerra, narcotrafficanti, capi clan mafiosi dell’ex Uck, saranno abbandonati al loro destino.
Forse, non i più famosi, come Dečani o Gračanica o come il patriarcato di Peć, che potranno rappresentare un business, in futuro, anche per gli albanesi, che proveranno a trasformarli in loro patrimonio culturale, cosa che, di fatto, l’Albania ha già provato a rivendicare. Ma per quelli più piccoli, miracolosamente scampati ai vari pogrom anti serbi, dal giugno del 1999 fino a oggi, passando per il 17 marzo 2004, c’è il serio rischio della distruzione e cancellazione più completa, anche dalla memoria.
E non servirà la presenza Eulex a difenderli, insieme alle ultime famiglie di serbi rimasti nelle enclavi. Erigendo e controllando dogane, con la scusa dei traffici malavitosi verso la Serbia, ha reso inutile la stessa richiesta presentata dal governo di Belgrado alla Corte di giustizia internazionale sulla legittimità dell’indipendenza proclamata unilateralmente in Kosovo nel febbraio 2008. Il verdetto pare già scritto ma, in ogni caso, la richiesta si ridurrà a puro esercizio di demagogia. Impensabile, infatti, si possa tornare indietro restituendo realmente il Kosovo alla Serbia. E quelle famiglie rischiano di venire spazzate via e per sempre. Un popolo, verrà definitivamente cancellato dalla propria terra.
Ma che popolo siamo diventati, noi italiani, che non riusciamo a indignarci più, se non davanti a una fiction televisiva o a un reality show?
All’inizio, preda delle menzogne di governanti a tempo, messi al loro posto da manovre in perfetto stile Cia, Cossiga insegna!, basta andare a rivedere le sue manovre di bassa politica per permettere di insediare un governo di “sinistra”, quello di D’Alema nel 1998, per non andare a elezioni anticipate, governo poi protagonista nella guerra alla Jugoslavia, sia nel concedere e usare per la propria aviazione le basi per gli attacchi aerei, come Aviano, dove centinaia di persone si affollavano per gustarsi lo spettacolo della guerra in diretta… sia tenendo a casa milioni di persone che non scesero in piazza contro il “loro governo”, complice dell’infame aggressione a un paese sovrano, che non ci aveva attaccato, e che si fece beffe della Costituzione…
Dopo, tutti concordi nell’inviare truppe in missione di pace, truppe che ben presto si resero conto del raggiro, dell’imbroglio, prendendo pian piano le parti dell’unica parte realmente colpita, i serbi!, la cui espulsione ha origine già ad inizio secolo, quando erano il 40% della popolazione di Kosovo e Metohija, ma che basterebbe riconsiderare, alla luce dei fatti accaduti, a partire dal 1981!...
Ora, dopo averli illusi della possibilità di resistere nella loro terra e in quella dei loro padri grazie alla nostra presenza militare, ammirata e apprezzata in questo decennio proprio da quei serbi che furono descritti come nemici, ora… abbandonandoli al loro destino, lasciandoli nel vuoto più assoluto, dove rischieranno di scomparire.
Tutto perché il padrone americano ha fatto un fischio. E’ iniziata la gara a chi dimostrerà, ancora una volta, di essere il più affidabile. Dini o La Russa, poco cambia.
In questo quadro viene da chiedere, provocatoriamente… possiamo affermare che ci resta difficile dissentire dai risultati del referendum svizzero su “moschee e minareti”?
Se la comunità internazionale, infatti, si dovesse comportare sempre come nel Kosovo e Metohija…
avallando la mutilazione di un paese, la Serbia, di una delle sue parti più importanti, culla della propria civiltà…
avallando espulsione e pulizia etnica dei serbi, ma pure delle altre etnie minori, degli oppositori politici e non, anche albanesi (chi conosce la storia di Ibraj Musa, ex partigiano morto da pochi giorni, profugo in patria, difensore della Jugoslavia e amico di tutti i suoi popoli, ma nemico dell’Uck, che gli ha quasi sterminato la famiglia?)…
avallando distruzioni di chiese e cimiteri ortodossi, patrimonio culturale dell’umanità intera, dopo che i serbi hanno tollerato, accettato, condiviso, convissuto da sempre nel Kosovo e Metohija con altre etnie e religioni, consentendo, quindi, la “costruzione di nuovi minareti e nuove moschee”, beh… ci sarebbe poco da stare tranquilli!
Allora, vista la presenza di una forte comunità kosovara albanese nel loro territorio, viene da chiedere, sempre provocatoriamente… ma non avranno ragione gli svizzeri?

venerdì 27 novembre 2009

SoS Kosovo!

Mancava questo tassello nella nostra presenza nella Serbia del dopoguerra.
Mancava, per provare a ristabilire verità storiche, attualità inconfutabili, certezza di dubbi.
Mancava, perché bisogna conoscere anche le altrui solidarietà, con un popolo che è stato vittima di ingiustizia. E lo è tuttora.
Così, dopo aver conosciuto e collaborato con Gilberto Vlaić e la sua associazione “Non bombe ma solo caramelle”, andiamo a conoscere una fra le voci più preparate della contro informazione sul tema ex Jugoslavia… Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”.
Da Kragujevac, dove arriviamo in una serata che sembra annunciare proleče, primavera, e non zima, inverno, partiamo la mattina presto del 24 novembre alla volta di Kosovska Mitrovica.
Siamo in sette nel pulmino. Ci sono Rajka Veljović, storica interprete coordinatrice dell ufficio internazionale adozioni e rappresentante per anni, anche in Italia, del sindacato della “Zastava” di Kragujevac, la “Fiat dei Balcani”, testimone militante delle sue disgrazie, ultima in ordine cronologico “l’avvento” della Fiat di Marchionne (vedere i preziosi resoconti di Gilberto Vlaić )… c’è Jasmina Brajković, dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Kragujevac… e ci sono Milija, Darko, figlio di Jasmina che guida il pulmino e Boris, figlio di Rajka. E poi ci siamo noi, Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”, che porta a conclusione due iniziative a sostegno dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Mitrovica e a sostegno di figli di scomparsi, attraverso i padri di Dečani, in Kosovo (SoS Kosovo). E ci sono io, Alessandro Di Meo, di “Un Ponte per…”, da dieci anni impegnato in iniziative di solidarietà con i profughi del Kosovo, quelli fuggiti “dalla parte sbagliata”, come dicevamo in un volantino del 1999, la parte dove non c’erano televisioni ad aspettare… che mi sono aggregato per capire come si muovono anche altre realtà nel Kosovo. Il Kosovo, però, dei serbi ghettizzati, criminalizzati, vilipesi, insultati, defraudati della loro terra, della loro memoria e delle proprie radici.
A Mitrovica salgono con noi anche Žarko, Ilija e Voikan, della locale associazione Malati di Sclerosi Multipla. Continuiamo in dieci, quindi, scortati da una pattuglia della polizia kosovara, alla volta del Kosovo. Passiamo il ponte sull’Ibar, non quello divenuto tristemente famoso, bensì un altro, parallelo, poche centinaia di metri distante.
Visiteremo il patriarcato di Peć dove, fra non molto, verrà insediato il nuovo patriarca che sostituirà il defunto Pavle. Non incontriamo madama Dobrila, che conosco, molto impegnata con i numerosi gruppi di visitatori. La ascolterò da lontano, descrivere le tre chiese che formano il patriarcato.
Fra molti imprevisti e problemi creati dalle pattuglie di scorta della polizia kosovara che si alterneranno (sono poliziotti albanesi, non so quanto felici di farci da scorta) che faranno perdere anche del tempo, arriviamo a Dečani che è già sera. Per le strade di Peć, imbottigliati nel traffico, la pattuglia aziona la sirena per passare prima attirando, in tal modo, la curiosità della gente che subito, in strada o da auto di passaggio, individuando targa serba, inizia l’opera di scherno e minacce, fatta di gestacci e urla.
Comunque, arriviamo a destinazione, non senza aver prima sventato il subdolo tentativo della pattuglia di riportarci indietro, verso Mitrovica, lamentando una mancanza di comunicazione in proposito, prontamente vanificata dalla consegna della corretta documentazione presentata in tempo utile alle “autorità” kosovare...
C’è molta gente, al monastero di Dečani, i tavoli per gli ospiti sono imbanditi, domani, 24 novembre, sarà la festa di Sveti Stefan Dečanski, re fondatore del monastero, venerato come santo. In pratica, la loro slava. Per questo non riusciremo a dormire al monastero. Circa duecento persone provenienti dalla Serbia, ma non solo, lo hanno preso letteralmente d’assalto, e la cosa fa veramente effetto. Assisteremo, comunque, alla funzione delle sei, ipnotica e magica nell’atmosfera serale, scoprendo che anche alcuni nostri militari impegnati a guardia del monastero sono da non molto divenuti ortodossi. Da una parte li capisco. Venuti in missione per continuare il “lavoro” iniziato dalla Nato e dalle sue bombe, si ritrovano nel mezzo di contraddizioni così evidenti da non poter evitare coinvolgimenti emotivi nei confronti di coloro che furono descritti come nemici. E per qualcuno, il coinvolgimento si è manifestato in questo modo. Effettivamente, qualcosa nell’aria c’è di affascinante, di ammaliante, di avvolgente.
Anche io accendo candele nel candeliere, parte bassa rigorosamente per i morti, parte alta per i vivi, dove intreccio fiammelle da mantenere accese. Ma i miei anticorpi, fondamentalmente atei, cercano strade per difendersi, anche se la sfida è alquanto impegnativa.
Riuscirò a incontrare rapidamente padre Andrej, che parla bene italiano e che sarà in Italia dal 30 novembre ad accompagnare padre Teodosije, figura primaria della chiesa ortodossa in Kosovo, col quale mi accordo per un appuntamento. C’è determinazione a spostare il nostro intervento a favore dei serbi rimasti, e in questo il ruolo dei padri di Dečani è davvero centrale.
A tarda sera, non senza aver gradito un piatto di zuppa calda di verdure, dell’aivar (peperoni cotti alla brace, macinati e messi sotto vuoto), del buon riso e del vino rosso, offertoci come rituale dei festeggiamenti, saremo costretti, nostro malgrado (la scorta ci attende fuori, puntuale), a fare ritorno a Mitrovica, dove dormiremo.
Il giorno dopo, 24 novembre, martedì, ci recheremo, sempre a Mitrovica, in una specie di mercatino fatto di piccoli negozi e qualche bancarella apparentemente improvvisata, fra le vie della parte nord che, però, è gestita da albanesi. I serbi ci vanno a fare “shopping”, perché si trovano cose a basso prezzo. Comprerò dei calzettoni, fatti a Prizren, mentre le donne del nostro gruppo, fatalmente, si perdono nei negozietti.
In questa parte, delimitata da bandiere rosse con l’aquila bicefala e dalle immancabili bandiere a stelle e strisce… forse in onore del padre della patria kosovara albanese, Bill Clinton… serbi e albanesi sembrano convivere ancora oggi. E le auto che passano, con targhe albanesi del nuovo Kosovo, con targhe serbe del vecchio Kosovo, con targhe serbe della Serbia o con targhe senza targa, perché immatricolate chissà dove e chissà come… oppure senza targa semplicemente perché sono taxi e, attraversando di continuo i ponti sull’Ibar, non vogliono rischiare troppo… le auto che passano ce lo confermano.
Verrebbe istintivo andare dall’altra parte, quella albanese, ma la cosa viene considerata rischiosa e da evitare. Strano, però, o forse no… che i serbi non possano andare dall’altra parte, attraversando ponti sull’Ibar, quando di qua, al contrario, gli albanesi ci vivono e fanno affari!
Ma tanto è, e ce lo conferma quanto avvenuto pochi giorni fa, quando un gruppo di serbi, per fare visita al cimitero serbo ortodosso situato nella parte sud, ha avuto bisogno della scorta armata che non ha evitato, però, di lasciarli insultare a distanza durante la visita al cimitero, in gran parte distrutto dalla violenza razzista kosovara albanese. Strano anche, o forse no… vedere nella parte nord di Mitrovica, il cimitero musulmano intatto e libero di ricevere visite.
Impossibilitati ad andare ancora a Dečani, dove una funzione religiosa straordinaria avrebbe celebrato il santo fondatore, andiamo in visita a un vicino monastero, quello di Sokolica, situato al di qua del ponte, quindi, per intenderci, nella parte serba oltre Mitrovica.
Pochi chilometri percorsi in salita e ci ritroviamo accanto a un villaggio albanese, ben tenuto e ristrutturato che vede eretta, in una vecchia casa in pietra, una scuola frequentata dai ragazzini albanesi del villaggio. Pare fosse la casa natia di Isa Shala “Boletini”, eroe kosovaro albanese vissuto a cavallo fra fine 800 e inizio 900, precursore del Kosovo indipendente e nominato “eroe del Kosovo” da Ibrahim Rugova nel 2004.
Dubbi, nei racconti di parte serba, sull’eroismo di Boletini, nativo di Mitrovica, ne fanno uomo esperto nella “risoluzione” delle controversie fra clan albanesi. Si dice ci si rivolgesse a lui quando si intendeva, dopo uno sgarbo subito, fare “giustizia”, uccidendo uno di un altro clan.
Allora, trattasi di sicario, prezzolato assassino o di eroe fautore della Grande Albania dove far confluire il Kosovo etnicamente ripulito dai serbi? Nemmeno ai posteri, ormai…
Ma la cosa davvero stupefacente, o forse no… è che in questo piccolo monastero, tenuto da monache, una statua della Madonna col bambino (Sokolica è l’unico monastero ortodosso a esporre al suo interno una statua, anche se pare ve ne sia un altro dalle parti di Prizren, a Orahovac, sud del Kosovo, verso il confine fra Albania e Macedonia) viene adorata e venerata soprattutto dalle donne albanesi con problemi di sterilità, omaggiata di oggetti in argento e oro per ricevere grazia di gravidanza. Questo è uno dei motivi per cui fu risparmiata dalle violenze che hanno prodotto la distruzione di oltre 150 monasteri ortodossi, fra il giugno del 1999 e il 17 marzo del 2004.
Dopo aver constatato di persona le qualità artistiche di queste monache, che stanno affrescando gli interni della chiesa, le loro capacità nel coltivare orto e giardino, arriva l’ora di tornare.
Sulla strada incontriamo indicazioni per altri monasteri, Studenica e Gradac fra tutti. Sarà per un’altra volta. Ci fermiamo per un caffè sotto il fantastico castello di Maglić e ricordi tornano alla mente.
Lascio la bella compagnia a Kraljevo, che è di strada, dove devo assolvere ad alcuni impegni, non richiesti ma moralmente (e affettivamente….) irrinunciabili.
Il tempo è davvero poco, così visito solo alcune di quelle famiglie dove è istintivo, ormai, sentirsi a casa propria. Ricevo inviti per prossimi compleanni di ex fanciulle ormai diciottenni (Tanja Vuković, della quale assaggio deliziosi cornetti preparati nella scuola che frequenta), inviti da estendere ad amici, con scambi di promesse e accordi… fettuccine contro cancellazioni di lacrime da un quadro!
Si incontrano volti aperti e preda del futuro, ma pure volti stanchi e preda di angosce.
Figli con negli occhi speranze di crescita, università, lavoro e vita, padri e madri con sguardi rassegnati, sempre più incapaci e inadeguati ad affrontare realtà quotidiana, fatta di disillusioni, bocconi amari, umiliazioni, lavori dimezzati, malpagati, se e quando, pagati.
Resta la solita alternanza di energia e stanchezza, gioia e tristezza, sorriso e lacrima.
Unica certezza… il pullman dell’una e mezza di notte, dove proverò a dormire, da Kraljevo mi porterà a Belgrado, dove alle sei e quaranta mi attende l’aereo che mi riporterà a Roma e, quindi, al mio posto di lavoro. Poche ore dopo l’incanto di Dečani e Peć, le contraddizioni di Sokolica e Mitrovica, le atmosfere del castello di Maglić e… quelle di Kraljevo. Ma i giorni di ferie sono quasi finiti e non posso passarli tutti in Serbia. E questo è davvero un peccato.

martedì 17 novembre 2009

Liberi da cosa?

Si sono svolte domenica 15 novembre le elezioni in Kosovo dove, c'è da dire, la "democrazia" sta dando i suoi frutti. Infatti, come nei maggiori stati democratici al voto è andata meno della metà degli aventi diritto (45 per cento su 1 milione e mezzo di albanesi).
Per questa parola, "democrazia", c'è poca affinità dunque, con la parola "libertà" che, notoriamente, è sinonimo di partecipazione!!!
Svariati partitini retti da ex criminali di guerra, giocando alla politica si contendono la vittoria, in perfetto stile nostrano. Tutti hanno vinto nessuno ha perso. A perdere, in realtà, sono i kosovari tutti, albanesi e non, in quanto il Kosovo è ormai la controfigura della terra che era. E il trucchetto, ormai, lo stanno scoprendo (alla buon'ora!!!) anche molti di quelli che hanno osannato l'indipendenza dichiarata unilateralmente e contro ogni diritto internazionale nel febbraio 2008.

Ma tanto basta ai governi occidentali per accreditare come democratico un narcostato, violento e illegale!
I pochi serbi rimasti hanno quasi completamente disertato le urne, ovviamente non riconoscendo legalità a queste elezioni farsa. Ma è significativo come nelle zone più interne, come ad esempio Gracanica (di fianco la foto del monastero) e Strpce, si siano raggiunte quote dal 30 e del 23 per cento dei serbi aventi diritto (in pratica, poche centinaia di votanti).

Questo dovuto un po' alla paura di rimanere ancora più isolati dal contesto, un po' per rafforzare il peso della presenza serba in Kosovo, cosa che viene a più riprese chiesta dai serbi delle enclavi e dalla chiesa Ortodossa, ultimo bastione resistente, vero e unico faro dei serbi che continuano a vivere, fra milioni di difficoltà, in Kosovo. Ruolo che la morte del patriarca Pavle (un "sant'uomo", ci confidano molti amici serbi), avvenuta domenica, all'età di 95 anni, dopo 19 anni di patriarcato, rende ancora più centrale.
Intorno alla chiesa Ortodossa ruota, infatti, tutto ciò che resta dei serbi e della Serbia nel Kosovo di oggi. Inoltre, cosa da non sottovalutare per il carico simbolico che l'evento porterà con se, il prossimo patriarca dovrà essere ufficializzato, come vuole la tradizione ortodossa, proprio nel patriarcato di Pec. Cioè, nel pieno di quel Kosovo e Metohija che continua ad accreditarsi al mondo come "liberato". Ma da chi e da cosa, dopo queste elezioni, sembra semplice per tutti da capire... Dal diritto, dalla legalità, dalla partecipazione.

martedì 27 ottobre 2009

Meravigliosa creatura...

Questo viaggio in Serbia, al quale partecipo con Samantha Mengarelli e Vincenzo Ludovici Pietropaoli, è incentrato sulla doverosa partecipazione alla inaugurazione della Palestra per malati di Sclerosi Multipla di Kragujevac, alla cui ristrutturazione Un Ponte Per... ha partecipato con una quota di 2500 euro.
L’iniziativa, che è servita ad aprire ufficialmente la collaborazione con l’associazione di Trieste “Non bombe ma solo caramelle”, in serbo (più o meno...) “Nema bombe, samo bonbona”, di Gilberto Vlaic, grande uomo, nonché professore triestino, strenuo difensore del popolo jugoslavo, da anni impegnato in collaborazioni con il sindacato della Zastava di Kragujevac attraverso svariate e importanti iniziative fra le quali spicca il sostegno economico a distanza di tantissime famiglie di dipendenti e, purtroppo, soprattutto di ex dipendenti della fabbrica, buttati fuori dalle solite (e ben sperimentate sulla pelle dei lavoratori) ricette neoliberiste, è stata resa possibile dalla compartecipazione di realtà italiane e serbe.
Da questa ristrutturazione si è preso lo spunto per cercare di coinvolgere in uno scambio formativo anche le realtà universitarie di Roma “Tor Vergata” e di Kragujevac, in una collaborazione che potrebbe sfociare in convenzioni vere e proprie. Sono stati presi contatti in tal senso e si procederà quanto prima ad avviare la cosa.
Ma procediamo con ordine, altrimenti si rischia di confondere la lettura.
Arrivati a Belgrado la mattina di giovedì 22 ottobre, ci togliamo subito uno sfizio, anche perché è saltato l’incontro con un professore di chimica di Belgrado col quale avremmo dovuto parlare delle conseguenze della guerra. Facciamo così visita alla tomba di Josif Broz Tito, padre della Jugoslavia, e al vicino museo di arte contemporanea, cosa che consigliamo a chi dovesse recarsi a Belgrado. Sicuramente, in un futuro, ipotetico viaggio da organizzarsi per la prossima estate, questa sarebbe tappa fondamentale da inserire nel programma. Perché proprio la conoscenza della storia della Jugoslavia e della sua gente attraverso i luoghi che si visitano, ne costituirebbe l’obiettivo.

Nel pomeriggio ci trasferiamo a Kraljevo.
Dopo una rapida sistemazione in hotel, non possiamo rinunciare a visitare alcuni nostri amici, molto rapidamente perché, in realtà, a cena ci attende la famiglia Jakovljevic.
Vincenzo, infatti, si è reso promotore di una raccolta fondi per aiutare, in modo davvero consistente, la famiglia proprio nel momento in cui questa, profuga dal Kosovo, dopo dieci anni vissuti in una ex stalla, con un lavoro precario del capofamiglia, Borislav, padre di tre figli, Stefan, Milisav ed Aleksandar che stanno crescendo e iniziano ad avere esigenze diverse da quelle dei tre bambini conosciuti e che ospitiamo da anni in Italia... con una mamma, Bozica, che ha cercato anche di far quadrare i conti con i suoi lavori di ricamo a mano e con la nonna paterna, Stanka, morta dieci mesi fa e che non può più dare il suo contributo... nel momento in cui questa famiglia fa il grande passo e prova a comprarsi una casa per ventimila euro, cifra da raggiungere attraverso piccoli risparmi, sacrifici di un fratello che vive in Svizzera, prestiti vari… Vincenzo è riuscito ad aiutarla per un terzo della cifra necessaria! L’importanza del gesto non necessita di tante parole, ma solo di grande considerazione unita all’enorme rispetto per l’amore e l’amicizia che quest’uomo ha saputo dare.

Abbiamo scattato foto, immortalando il momento della consegna... girato piccoli filmati che verranno mandati in rete per rendere partecipi tutti coloro che si sono prodigati per aiutarlo ad aiutare i Jakovljevic. Verranno anche tradotti i documenti che attestano la proprietà della casa.

Il tema del ritorno dei profughi è controverso. Da una parte, il Kosovo, per essere ancora Serbia, ha bisogno che i serbi tornino. Dall’altra, chi è fuggito dieci anni fa, quasi undici, e ha visto crescere i propri figli lontano dal Kosovo stesso, li ha visti sviluppare conoscenze e amicizie in altro posto, non pensa a un ritorno perché sarebbe, a questo punto, innaturale. Che fare? Tornare ora, sarebbe cosa incomprensibile agli occhi di questi figli. E, forse, ormai anche ai propri…
Torniamo in hotel, accompagnati da Borislav che accompagnerà a casa anche la nostra cara amica Jelena, che ha fatto da interprete. Una birra ancora, nonostante la rakija, prima di andare a dormire. Ma non servirà a chiarire le tante domande che ancora, cocciuti e testardi, ci poniamo…

Il 23 mattina cominciamo a chiamare le famiglie per lasciare il sostegno a distanza per Svetlost 1.
Ne incontriamo alcune, ma subito dobbiamo recarci a casa di Rosa Lazic, dove ordiniamo materiale ricamato a mano per fine novembre. Tovaglie su misura, ma anche portabottiglie, porta occhiali, centrini per il pane, borse, porta telefonini, guanti di lana… tutto rigorosamente fatto a mano. C’è la nipote di Rosa, Jasmina, che vive a Capodistria e che è lì in visita. Ha 24 anni, è molto interessante parlare con lei. Potrebbe in futuro essere coinvolta nelle nostre attività, studia e si occupa di marketing e promozione di immagine, perché, parlando di alcuni prodotti alimentari biologici che donne di Kraljevo, riunite in associazione, stanno cercando di far conoscere, escono fuori anche molti limiti strutturali e di poca attitudine mentale che una cosa del genere porta con se. E lei sembra avere le idee chiare sul come, invece, si dovrebbe fare...
Rosa vive, ora, nella sua nuova casa a Beranovac, di fronte all’Istituto per orfani Deci Selo. Con lei, ci sono anche il padre e la madre che, ormai già da qualche mese, dopo una operazione agli occhi, non vede più. Rosa è felice di questo appartamento, dopo 10 anni vissuti in una stanzetta fatiscente di un ex hotel a Mataruska Banja. L’appartamento, all’interno di uno dei palazzi costruiti dalla cooperazione tedesca, di fianco a quelli della cooperazione italiana, non è molto grande. Una stanza, un soggiorno, un angolo cottura, un bagno e un balcone. Ma, finalmente, può chiamarsi “casa”.

All’ora di pranzo partiamo in autobus per Kragujevac dove assistiamo e partecipiamo alla inaugurazione della palestra. C’è una bella presentazione con tanto di consegna diretta delle quote. Vengono donati dei diplomi a ricordo dell’evento. Siamo molto soddisfatti perché nella targa affissa all’ingresso, oltre al nome di UPP, c’è quello di Giuseppe Torre, nostro carissimo, impegnato, schieratissimo, a favore dei serbi, e generoso donatore. Ci sono anche Riccardo Pilato, della rete di Brescia per la Zastava, che ha contribuito al progetto e Bruno Maran, amico fotografo col quale abbiamo in mente future collaborazioni. Ci sono anche le modelle di una televisione locale, molto seguita dai giovani, che hanno contribuito alla ristrutturazione. Ci chiedono una intervista che concediamo volentieri, con al fianco la preziosa e insostituibile Rajka, che funge da interprete ma pure da validissima consigliera.
A seguire, ci viene offerta una cena alla quale partecipiamo con entusiasmo e grande amicizia. C’è musica, ma poi arriva anche una banda di suonatori di trombe, che ci sta proprio bene. Si balla il kolo tutti insieme, si canta, si parla. Gilberto ci illustra un’idea di progetto da realizzarsi insieme a Riccardo Pilato e con altre realtà. Si tratta della ristrutturazione dell’area sanitaria di una scuola frequentata da profughi a Sumarice (Kragujevac), la cui fattibilità dovremo valutare ma per la cui riuscita ci adopereremo al massimo. E’ una collaborazione che vogliamo mantenere e far sviluppare, dentro il mare della solidarietà. Con il popolo serbo, ex jugoslavo, vittima di atroce ingiustizia e incommensurabile menzogna.
Alla fine della serata, ci accompagnerà a Kraljevo un amico di Jasmina, la direttrice dell’associazione Sclerosi multipla di Kragujevac che deve averlo, evidentemente, precettato..

Il 24 Ottobre, di mattina presto, facciamo visita al mercato di Kraljevo, dove facciamo piccoli acquisti. Incontriamo anche una famiglia sostenuta a distanza e della quale ospitiamo i tre figli, i Lacmanovic, alla quale consegniamo il sostegno.
Torniamo a casa di Novka e procediamo con le telefonate per gli appuntamenti relativi alla consegna di altri sostegni, che cerchiamo di inserire fra uno spostamento e l’altro.
Ci chiama Jelena, che ha fatto da interprete l’altra sera a casa Jakovljevic. Ci ha fissato un appuntamento con la scuola d’Arte di Kraljevo, dove vorremmo intervenire a sostegno di alcune attività che hanno in mente ma che risultano di difficile realizzazione per motivi burocratici ed anche economici. D’accordo col direttore, un tipo stravagante come può esserlo solo un direttore di una scuola d’Arte e col quale restiamo a parlare per quasi due ore, cercheremo di collaborare alla realizzazione di un corso per quattro gruppi formati da 10-12 persone. Un gruppo formato da bambini, per l’avviamento alle conoscenze artistiche; uno da adolescenti, che potrebbero in futuro, se interessati, frequentare la scuola; uno preparatorio per l’università diretto a chi vorrebbe scegliere materie artistiche ma ha frequentato altro tipo di scuola; un altro formato da adulti, senza limiti di età, anziani compresi. Ovviamente, tutte persone con alle spalle situazioni di difficoltà economica che ne impedirebbe la frequenza.
Facciamo due conti, costo professori e materiali. Ora ci sarà da recuperare i fondi.
Visitando la scuola, facilmente ci rendiamo conto di come la biblioteca, essenziale in ogni scuola ma in questa ancora di più, sia praticamente... inesistente. E di come, nell’eventualità della realizzazione dell’iniziativa, non possa assolutamente essere lasciata fuori da qualsivoglia intervento. Ci lasciamo in amicizia e simpatia e con la grande speranza che, in questa mattina grigia e piuttosto calda di Kraljevo, il seme gettato possa germogliare presto.

Ritorniamo brevemente dai Jakovljevic per filmare la casa alla luce del giorno.
Nell’occasione, però, viene in mente una vecchia idea, una di quelle che resta nel cassetto, come una foto che, ogni tanto, mai rassegnato, tiri fuori e ti riconduce a un sogno lontano.
I Jakovljevic, ora, hanno mezzo ettaro di terra. Una casetta e un paio di costruzioni da sistemare, dove trovano alloggio tre maiali, legna e materiali vari.
Ci sono poi tre ragazzi che stanno crescendo e fra non molto dovranno iniziare a pensare al proprio futuro. Il tutto, dosato a dovere, appare come un’ideale ricetta per una conduzione famigliare di una attività. Insomma, una piccola azienda agricola.
Ma la particolarità starebbe nella produzione, che noi pensiamo possibile e praticabile, di… di…
Be, e questa è un po’ scaramanzia, per ora sarà meglio non svelare di cosa si tratta. Ne parleremo ancora, valuteremo il da farsi anche sulla base di ciò che Borislav e un suo amico, Vinko, che parla italiano e che è stato coinvolto nella cosa, riusciranno a sapere per quanto riguarda la legislazione relativa. Di sicuro, si tratterebbe di un gran bell’esperimento in terra serba...

Fissiamo appuntamento con alcune ragazzine che ospitiamo in Italia, nel centro di Kraljevo, dove consegneremo loro i sostegni che spettano alle loro famiglie e dove prenderemo un gelato insieme.
Nel frattempo arriva anche Milos, un amico di Kraljevo ex camionista in Italia, che ora trasporta persone con la sua auto privata. Ci racconta di come, in realtà, le cose non vadano bene nel lavoro e nella vita quotidiana. Ci parla di quello che era la Jugoslavia, delle possibilità di un tempo e di come, oggi, tutto sia diventato tremendamente più difficile, con affitti che vanno dai 100 ai 300 euro al mese, con stipendi medi di 2-300 euro, tanto da chiedersi, nel suo accento padano...
Ma tutta questa gente, intorno a me, come fa ad andare avanti? Il gasolio è alle stelle ma poi, all’ora di punta, a Kraljevo non si passa per le macchine. Ma come fanno, Madonna!!!

Il buio arriva presto. Ci salutiamo. Samantha, con la scusa di riaccompagnare le ragazze, non rinuncia a un'altra visita a casa delle Vukovic, mentre Ceca e Sonja vanno dal padre che, con il taxi di servizio, le riaccompagnerà. Dosta e Jelena hanno il padre che le aspetta. Snezana tornerà a piedi da sola. Così come Stefan, al quale il padre ha dato i soldi per il taxi. Non ha rinunciato a salutare le ragazze, pure se in difficoltà per il vestito indossato, poco curato. Ma Stefan stava lavorando nella nuova casa con il fratello Milisav e con il padre, Borislav.
Ti capiamo, Stefan, loro sono davvero tutte molto belle, non è facile rinunciare ad incontrarle…
C’è anche Sasa, arrivato in bicicletta, che mi racconta, felice, di come abbia sanato i debiti a scuola, debiti maturati nell’anno precedente.
Milos porterà me e Vincenzo a un internet point, dove appagheremo tutta la nostra astinenza da connessioni telematiche. Qualche notizia squallida dall’Italia, legata a quella che qualcuno si ostina ancora a chiamare politica, non ci toglie dagli occhi e dalle orecchie la bellezza e il candore, le voci e le risate di questi splendidi ragazzi e ragazze che stiamo seguendo come fossero nostri figli.

Leggo della morte di Ibraj Musa, vecchio albanese kosovaro, partigiano della Jugoslavia, amico dei popoli, siano essi serbi o albanesi, che fu perseguitato dall’Uck fino a pagare la sua contrarietà con 3 figli e 3 nipoti ammazzati. Milos ci parla di suoi amici albanesi di Mitrovica, che raccontano di come l’Uck sia stato portatore di violenze alle quali molti albanesi hanno dovuto sottostare, tanto da non sapere nemmeno più, ora, cosa è giusto e cosa sbagliato. Sarebbe utile incontrarli, ma non credo avranno voglia di parlare con degli stranieri. Il passato, con la sua tragedia, è sempre in agguato e non si riesce a fare a meno di tornare con la mente e la ragione a quel che è successo, al perché siamo qui, ancora oggi, dopo quasi undici anni da quella guerra rovinosa La tragedia passata riaffiora sempre nei discorsi, negli sguardi, nei nostri gesti che esigono verità, conoscenza, denuncia, voglia di non dimenticare.
Un grido di dolore costante e mai sopito.

Decidiamo che la notte andremo a Belgrado con Milos, che si offre di portarci per una cifra molto più bassa del dovuto, in amicizia. Così, con la sua auto a gas, dopo una sosta obbligata dalla polizia che elargisce una inutile, quanto salata multa per la luce dei fari troppo alta, arriviamo a Belgrado alle cinque e mezza, senza aver tenuto conto che l’inverno sta arrivando e che l’ora torna solare proprio stanotte. Sono le quattro e mezza, dunque, e l’ora che tanti recuperano dormendo noi la buttiamo via sulle sedie dell’aeroporto, nell’attesa dell’imbarco. Rimettendo orologi.

P.S.
Dimenticavo un’ultima cosa. Forse, anzi sicuramente, marginale. Ma devo raccontarla.
Ho fatto doppiare dei cd musicali da Marko, il figlio di Novka. In Italia non ne ho avuto il tempo, così li ho portati in Serbia per doppiarli. Era un pensierino per Beba, una delle sorelle Vukovic.
Lei viene a casa mia da qualche anno. Sono canzoni che ascoltavamo insieme questa estate. Fra queste, poi, ce ne è una in particolare che Beba e io cantavamo più delle altre. Sapete quando si rimanda indietro sempre la stessa canzone per tante e tante volte che gli altri, alla fine, non ce la fanno più e ti urlano di smetterla? Ecco, con Beba era proprio così, “Meravigliosa Creatura”. Ora potrà cantarla a casa sua. Ci provo anche io, ogni tanto. Ma da solo, non è la stessa cosa.

mercoledì 16 settembre 2009

Serbia Hardcore?

Cari tutti, ieri c’è stato il reading letterario di UPP all’Apollo 11, a Roma.
Si parlava di Serbia attraverso il libro “Serbia Hardcore”, di Dusan Velickovic.
Bell'ambiente l'ex cinema, buona accoglienza dei molti presenti, ottimo Tonizingaro con la sua fisarmonica, buone letture tratte dal libro, ma... pessima intervista.
A mio avviso, ieri abbiamo assistito a uno spot a favore dell’intervento “umanitario” della Nato nel 1999, intervento che ha portato alla dissoluzione di quel che rimaneva della Jugoslavia. Intervento che decise l’impegno di UPP fra quella gente, sfollati e profughi di guerre più grandi di loro, come lo sono tutte le guerre... più grandi di tutti noi, poveri comuni mortali.
Ma ieri, ci è stato di nuovo detto (come se non ce lo avessero già ripetuto in tutte le salse i nostri media “liberi e indipendenti”...) che quella guerra ha debellato un "terribile regime”, quello di Milosevic (salvo ammettere, parole di Velickovic, che il “terribile tiranno” sarebbe caduto ugualmente, magari anche prima in quanto le bombe ebbero un primo effetto di potenziamento della sua credibilità davanti ai serbi).
"Va bene!", si è detto... "Ci sono state vittime e disastri, ma il terribile tiranno doveva cadere per arrivare a quella democrazia che tutti agognavano!". Omettendo, però, di aggiungere...
- che al momento dei bombardamenti, le maggiori città della Jugoslavia erano rette da esponenti dell’opposizione (cosa confermata da Velickovic). Strano, nel Cile di Pinochet ciò non accadeva;
- che tutti i giorni nel periodo post guerra, c’erano libere manifestazioni contro il regime di Milosevic. I miei occhi non videro cariche della polizia, almeno non in quelle di ottobre-novembre 1999;
- che quando nell’ottobre del 2000 Milosevic perde le elezioni perché arriva secondo dietro Kostunica, bisognava andare al ballottaggio, come prevedeva le legge elettorale del "regime";
- che invece del ballottaggio, ci fu una sommossa di popolo (?) che impedì di fatto il ballottaggio ed esautorò il “terribile tiranno”;
- che se fosse accaduto il contrario tutti, in occidente, avrebbero gridato al colpo di stato, mentre così si parlò di rivoluzione popolare e pacifica (compreso quotidiani come il manifesto);
- che Milosevic è stato l’unico, insieme ad altri imputati serbi, ad essere processato come responsabile di ciò che era accaduto in Jugoslavia, senza riferire delle responsabilità di gente come Tudjman o Itzebegovic, lasciando stare i criminali alla Oric, Haradinaj, Cheku, Thaci e compagnia cantante, tutti assolti!!! (nonostante ciò, sostiene Velickovic, il tribunale è bene che ci sia, forse perché c’è ancora da arrestare Mladic e da processare Karadzic);
- che la consegna di Milosevic all’Aja, vero e proprio atto di sottomissione alla Nato e all’occidente, non sarà mai digerito dai tanti serbi che avrebbero preferito processarsi in casa il loro "tiranno";
- che il nazionalismo, sempre sbandierato come una colpa da espiare, fonte di terribili “pulizie etniche” e di “oppressione di minoranze”, in realtà non impedisce alla Serbia e ai serbi di convivere con albanesi, con rom, con musulmani che in città come Novi Pazar sono in maggioranza;
- che la stessa cosa non accade ai serbi del Kosovo, così come ai rom e così come ai tanti albanesi cattolici o in disaccordo totale con la politica mafiosa, corrotta e violenta degli ex Uck, costretti come sono a subirne le decisioni;
- tante altre cose.
Non una parola, che fosse una... fra le domande poste all’autore del libro, sul Kosovo!
Sul disastro ambientale in Serbia e in tutta la regione, sulle conseguenze fra la popolazione civile, sia essa albanese o serba, sugli oltre duemila ammazzati sotto le bombe, sui quasi duemila “scomparsi” serbi, già dal 1998, quindi molto prima dell’intervento “umanitario”, sugli oltre 250 mila profughi che si sono andati ad aggiungere al milione delle guerre degli anni novanta, sugli oltre 150 monasteri dati alle fiamme e distrutti per sempre in Kosovo, sulla edificazione della più grande base Nato in Europa, quella di Bond Steel, guarda caso nell’unica parte del Kosovo non interessata dai bombardamenti, sulla situazione attuale del Kosovo, in mano a mafie che fanno affari di ogni tipo e sotto gli occhi di tutti e che controllano la regione intera, tanto è che Serbia ed Eulex (ricordo l’Eulex, missione militare europea che ha il compito di garantire l’indipendenza del Kosovo) hanno appena stabilito un accordo per combattere i traffici malavitosi fra le due parti, non una parola su tanto altro ancora.
La propaganda l’avevamo già conosciuta all’epoca dei fatti, quando ci mostravano dal satellite regioni intere del Kosovo come macchie nere nelle quali, si sosteneva, Milosevic aveva fatto finire migliaia di albanesi, fosse comuni mai scoperte in più di dieci anni. Anzi, fosse comuni ne sono state scoperte, ma ci hanno spesso trovato i resti di genitori serbi di ragazzini conosciuti in questi anni.
Ci sono state vittime fra gli albanesi... le bande di Arkan non facevano sconti, soprattutto in una situazione ormai deteriorata dalle bombe e dalle azioni dell’Uck degli ultimi anni. Ma la guerra, l’intervento anche dell’Italia, è avvenuto perché c'era stata una propaganda che non trovò riscontro negli anni successivi, un po' come le armi di distruzione di massa di Saddam. I bombardamenti sugli ospedali di Belgrado e sui civili non li trovammo umanitari, almeno in quello che era Un Ponte per... all’epoca.
Di questo passo, mi aspetto che nei prossimi reading (o readings, non conosco bene l’americano...), arrivi uno scrittore kurdo a parlarci della necessità delle repressioni contro i kurdi per arrivare alla “democrazia”, del “terribile” Ocalan e della "giusta detenzione" di Leyla Zana... oppure, che arrivi uno scrittore irakeno che ci parli del “giusto prezzo da pagare” da parte del suo popolo, come fece a suo tempo la Madelene Albright... quindi del decennale, tragico embargo dopo la prima guerra del Golfo, dell’invasione del 2003, dei disastri sui civili e degli errori collaterali, come necessari per liberarsi di Saddam... oppure, infine, che qualche autore palestinese ci parli di come Israele in realtà, "stia facendo il bene" dei palestinesi.
Non so se tutto questo sia dovuto a una disinformazione generale o a un disinteresse verso l’area in questione da parte di chi lavora in Un Ponte per... Certo è che, in questi anni di attività, non sono mancati resoconti, relazioni, racconti, iniziative per capire cosa si stesse facendo in quelle zone e, soprattutto, perché.
Credo che, a questo punto, urga un chiarimento da parte del Presidente e di tutto il CN di UPP sulla questione ex Jugoslavia-Serbia, per capire se ci siano o no ancora gli spazi e la condivisione politica del nostro operare laggiù oppure se, a distanza di oltre un decennio, sono cambiate ottica e prospettive dell’associazione nei confronti di quell’area, di quelle problematiche e di quelle popolazioni (nel qual caso, mi tirerei fuori).

martedì 11 agosto 2009

Fiocco di neve...

Il 12 Gennaio 2009 scrivevo del ritorno a casa di un caro amico, al quale, per festeggiare, preparavo una cena speciale.
Era Fiocco, cane venuto fra noi in un freddo gennaio di 6 anni fa. Stavolta, non tornerà.
Quel fiocco di neve l'ho trovato sciolto, stamattina, nell'angolo più fresco del giardino. Il caldo di questo anonimo agosto è stato più forte della sua volontà e le Madonne di mezzo Agosto non fanno più miracoli. Spero non abbia sofferto, il soffocamento da avvelenamento porta morte atroce. Spero proprio non sia andata così. Ma la scarsa fiducia nel genere umano affievolisce la speranza.
Vorrei scrivergli poesie, come feci col suo, mio grande amico, gatto nero Gastone. Ma preferisco ricordarlo con una canzone di Rino Gaetano http://www.youtube.com/watch?v=B5HbB3r_LAQ
e con le parole di Schopenhauer... "Chiunque non abbia mai avuto un cane, non sa cosa significhi essere amato".
Addio, caro amico Fiocco. Il tuo ululare alla luna, ci mancherà.

mercoledì 22 luglio 2009

La vita che verrà.

Un gatto nero s’avvicina al tavolo dove stiamo mangiando.
Occhi di pantera, gli intingo molliche nell’olio della carne arrostita e gliele tiro lontano, ché non si fida e non s’avvicina troppo. Mangia affamato. Di nascosto, gli tiro anche un pezzo di carne, che qui è cosa troppo preziosa da dare a un gatto. Siamo a Osojane, piccolo villaggio non molto lontano da Pec, in Kosovo, dove vivono poche famiglie serbe che ancora resistono nel Kosovo albanese. Sreten, del vicino villaggio di Kos, racconta di come le cose, nel bene e nel male, vadano avanti da dieci anni. Il Kosovo “indipendente” è solo uno dei tanti schiaffi alla loro voglia di resistenza. Ma ci vuole altro per mandarli via, per arrenderli.
Lui e i suoi amici in questa piccola kafana ci guardano diffidenti. Come potrebbe essere altrimenti? Chi siamo noi, che arriviamo qui in questo afoso pomeriggio di luglio a parlare con loro, a chiedere cose, a scattare foto? Tanti lo hanno fatto, tanti hanno fatto domande, scritto risposte, scattato foto, filmato video, ma nessuno è mai ritornato.
Io mi presento, presento la mia associazione, racconto quel poco o tanto che abbiamo fatto e la voglia di conoscerli per raccontare ancora. Sreten vive con poche altre famiglie nel suo villaggio, ma intorno ce ne sono circa duecento. La scuola è ben tenuta, ne vanno orgogliosi. E ti dicono che hanno bisogno di tutto e di niente. Hanno bisogno di tutto perché la loro vita è tutta lì, in quella stanca e malmessa kafana, in un campo da coltivare, in una lezione da tenere, in un ambulatorio da mandare avanti fra mille stenti, nelle serate passate nella piazza del villaggio, dove i ragazzini possono giocare. Ma hanno bisogno di niente perché sono dieci anni che vanno avanti così e non sanno che farsene della solidarietà. Termino la conversazione con un “Speriamo di vederci presto” che sa di circostanza, anche se non è così nella mia mente. Solo il tempo saprà dire se questa speranza sarà stata reale.
Viviamo in una prigione a cielo aperto” è la traduzione delle ultime parole di Sreten che fa Beba, nostra piccola, splendida, occasionale interprete che si ritrova a parlare di cose più grandi di lei. Dodici anni, Beba è qui con la mamma Jordanka che ha approfittato del nostro invito per tornare in Kosovo dopo dieci anni dalla fuga. Lei viveva a Osojane e da sei mesi abitava nella nuova casa costruita col marito Lazar, dove aveva portato le sue cinque figlie. Ora, Lazar è morto, così come Sanja, la figlia più grande annegata nel fiume Morava, a Kraljevo. Desiderava rivedere questi posti, Jordanka, ma la visita al cimitero dove sono sepolti la madre e un nipote diciassettenne ammazzato da terroristi albanesi è stata straziante per lei, già al mattino. Ma qui, a poche centinaia di metri c’è la sua casa, vuole rivederla, non si può dirle di no. E’ già tardi, dobbiamo percorrere il viaggio di ritorno, ci vorranno altre cinque ore, ma convinciamo l’autista e ci fermiamo ancora per dieci minuti. Lei ci mostra gli ettari di terra della sua famiglia e una casa costruita dopo, senza permesso, su quella che era stata la sua terra. La strada che portava alla sua casa è stata cancellata dal bosco che ha invaso e seppellito tutto. Allora, aggiriamo il piccolo colle e passiamo da dietro, in mezzo al bosco, passando fra terre che erano di suoi parenti. Da lontano, si intravedono altre case distrutte e razziate, facilmente riconoscibili... le case dei serbi.
Le forze non l’abbandonano quando, fra i rovi e gli alberi, si comincia a scorgere la sua casa. Man mano che ci avviciniamo, però, il suo cammino diviene stanco, rassegnato, preda di ricordi strazianti. Come il suo pianto quando entra in quella che era la cucina, passando fra rovi e arbusti. Non ci sono mura, tutte rubate, mattone dopo mattone. Restano in piedi solo i pilastri, i solai e la scala, ormai tutto staticamente precario. Fra le macerie, una piccola scarpa di bambina, forse appartenuta a Suncica o, forse, a Beba. Piange, Jordanka, come pure Beba, costretta a scoprire, fra lo spettacolo delle sue radici violate e umiliate, la memoria di se.
Vado al piano superiore, mi giro e rigiro in quella desolazione, cercando di coglierne il senso per restituirne qualcosa a chi non sa o finge di non sapere, con la mia videocamera. Ma arriva Jordanka, che subito mi mostra un legno mezzo marcito...
Alessandro, la culla di Beba!”, mi dice scoppiando in lacrime.

Jordanka rovista ancora freneticamente, cercando non si sa cosa, fra mattoni che infami sciacalli hanno spezzato per rubarne altri, insieme alle tubazioni, ai fili elettrici, al legno del tetto, alle tegole, alle piastrelle del pavimento, ai sanitari e a tutto quello che era dentro la sua vita. Ritrova due biberon, Jordanka ed è di nuovo pianto. Beba la segue come un’ombra nei suoi movimenti, quasi sapesse ogni gesto, ogni parola, ogni sua lacrima, come fosse donna adulta. E forse davvero lo è, prima del tempo, niente a che fare con le odierne e tutte nostrane pupe da premier e lacchè.
Scendiamo le scale, Jordanka cerca ancora. “Attenti, qui può crollare tutto!”, ma niente crolla, solo Jordanka potrebbe farlo, da un momento all’altro, sangue che ribolle ed esplode negli occhi, invasi da rabbia e dolore, tristezza e piaga dei ricordi.
I rovi e gli arbusti di rose hanno invaso il piano terra. Mi viene da prenderne dei rami, Jordanka mi ha insegnato un modo per riprodurle, per talea, lasciando sette occhi, togliendo le sette foglie, incidendo alla base il rametto e inserendo dei chicchi di grano. Il tutto va lasciato cinque giorni nell’acqua e poi interrato. Ne prende anche lei, mossa dal mio stesso pensiero. Le dico che uno dovrà essere mio. E così, in un fazzoletto di carta, le dono quella spiga di grano colta nel vicino campo a Osojane, il suo villaggio.
Torniamo al pulmino dove ci aspettano Rade, l’autista e Miso, che ci ha accompagnato, riattraversando la macchia, che ha cancellato strade, sentieri, percorsi di memorie.
Beba porta fra le braccia degli stracci, vecchi vestitini di bambina e quel legno spezzato, sbriciolato, marcito ma tanto prezioso, della sua vecchia culla.
Mi offro di aiutarla ma dice di no e mi accorgo che piange, delicata. Mi dice che è triste per tutto quello che ha visto, ma pure che ringrazia per averla portata lì con la mamma.
Sono triste ma pure felice, perché adesso ho visto...”.
Si, Beba, un albero deve conoscere dove stanno le proprie radici per capire dove andare. E tu, ora, le hai conosciute. Sono qui nel Kosovo, a Osojane, piccolo villaggio vicino Pec. E con la tua culla fra le braccia, puoi adesso tornare alla tua vita. La vita che verrà.

giovedì 2 luglio 2009

Samo Sloga Srbine Spasava

Samo Sloga Srbine Spasava”, “Solo l’unione salverà i Serbi”.
Da sempre i Serbi si ritrovano sotto questo motto, ma mai come oggi questo motto è in pericolo. In Kosovo, gli ultimi resistenti accusano i loro fratelli di averli abbandonati e di avere, soprattutto, abbandonato la terra dei loro padri, il Kosovo e Metohja.
Che importa chi è che comanda oggi in Kosovo? Siamo passati per secoli di dominazione turca, ci hanno invaso i nazisti, ci hanno ammazzato e siamo pronti a morire ancora, ma non ci siamo mai piegati agli invasori... L’unica cosa che conta è che i Serbi restino qui!”.
Ma quelli che se ne sono andati hanno le loro ragioni, e se la prendono con la stato che non li ha protetti...
Si, siamo stai aiutati all’inizio, ma senza lavoro, coi figli da crescere, tutto è difficile. Abbiamo perduto tutto, come possiamo non vendere quel poco che ancora abbiamo in Kosovo? Gli albanesi vengono con tanti soldi e non possiamo rifiutare le loro offerte... alla fine, ci cacceranno anche in maniera legale da quella che era la nostra terra”.
Poi, ci sono i giovani, quelli di Belgrado, quelli che ascoltano Radio B92... quelli che hanno voglia di dimenticare le sofferenze, che non ne vogliono più sapere di Kosovo, di guerra, di passato, tradizione, profughi o resistenti, religione o dinastie Nemanja.
Si arrabbia, madama Dobrila, nel patriarcato di Pec, vecchia, dolce ma ferma signora che sembra una monaca ma monaca non è, e che ci spiega ogni affresco, ogni simbolo, ogni anfratto del patriarcato, quando pensa a quel che è successo...
Ci hanno distrutto la cultura e il perché non lo sa nessuno! Noi convivevamo anche con loro, gli albanesi, ognuno con la sua cultura e religione. Che bisogno c’era della guerra? A cosa è servita? A distruggere tutto e basta! Dopo la seconda guerra mondiale avevamo una popolazione analfabeta, le donne giravano con il velo. Poi, tutti hanno potuto studiare, conoscere, imparare e ora tutto di nuovo si perde. E’ la barbarie che vince”.
Tutto tranquillo, invece, per i militari del Villaggio Italia, che sovrasta Belo Polje, dove una certa propaganda governativa proprio non attacca...
Andare via dal Kosovo per l’Afghanistan? Non se ne parla, noi prendiamo ordini solo dai vertici Nato. Potremo diminuire le forze impiegate, cosa che già è avvenuta, ma non abbandonare le minoranze della zona”.
Villaggio Italia, quindi, non smobilita. Troppo importante il ruolo da deterrente che permette ai pochi serbi delle enclavi (parola che a molti serbi resistenti non piace!) di pensare ancora a un futuro. E troppo grande la stima guadagnata sul campo, sia per la protezione garantita dopo il progrom antiserbo del marzo 2004, sia per la sensibilità dimostrata nel recupero di icone e simboli dalle chiese bruciate dagli albanesi filo Uck. A madama Dobrila, che parla un perfetto italiano con delicato accento francese, si illumina il volto quando pensa al lavoro svolto dai militari nella salvaguardia di queste opere preziose...
Niente a che vedere coi militari degli altri paesi! Siamo qui, protetti da voi italiani, come in una gabbia. Ma almeno una mano l'avete data e continuate a darla!”.
Contraddizione emblematica dei tempi che corrono!
Abbiamo fatto una guerra contro la Jugoslavia, in particolare contro i serbi, a fianco di impresentabili terroristi travestiti da liberatori e ora, gli stessi militari sono qui a proteggere dalla barbarie gente comune che ha la sola colpa di non volersene andare dalla propria terra. Una mano non sa cosa fa l’altra, e il caos regna sovrano.
Intanto, mi giunge la notizia di una cara amica che è morta. Allora, a suo ricordo, faccio come i serbi e verso un po’ di rakija a terra pronunciando il suo nome. Poi, accendo un cero nel pianale più basso di questa chiesa bruciata e mezzo distrutta, quello per i morti, verso i quali il rispetto va aldilà del semplice simbolismo.
E quanto dolore può provocare il vicino cimitero distrutto, con le pietre divelte e spaccate, lo può sapere solo chi, quel rispetto, continua a portarlo avanti con tutta la propria forza. Forza che viene da memoria, cultura e amore per le proprie radici. Quelle che, in Kosovo, stanno cercando di recidere ai serbi.

martedì 9 giugno 2009

Gocce di Primavera

Il giardino è fiorito, l’orto inizia a dare i suoi frutti.
Primavera inoltrata, si cominciano a tirare le somme di un anno, prima dell’estate. Ma le somme non si tirano e i conti non sempre tornano. Le parole corrono, ormai quasi senza senso. O, forse, ne hanno troppo e bisogna farci i conti.
Abbiamo vissuto due mesi come zingari!”, dicono in tv operai rimasti senza lavoro, che hanno occupato la fabbrica. Due mesi come zingari...
La parola “zingaro” evoca, nel nostro immaginario, altro da noi. Vita estrema, che non riguarda il comune mortale, che si sente altro, che aspira ad altro, che non vuole ridursi così in basso. A volte la si usa come finta medaglietta da portare al collo, magari va di moda, uno si sente così, ma tanto, poi gli passa. Ecco perché solo gli “zingari” sanno cosa significa vivere da “zingaro”. Ed è per questo, credo, che ne vanno orgogliosi.

E da i suoi frutti anche quest’anno, l’orto. E danno i loro frutti anche le cartelle per la riscossione tributi spedite a raffica dalla Equitalia Gerit spa. Piccole more, vecchie di anni, crescono. Ma non ci farai marmellate. Saranno tanti, con timore di dio, quindi del potere, quindi dell’esattore, a pagare senza pensarci, perché così dormono tranquilli. Io no. Farò ricorso. Pagherò quello che sarà giusto pagare, ma il resto lo contesterò. Notifiche mai arrivate di verbali vecchi di anni che pretendono cifre esose con l’arroganza di chi non teme nulla. Siamo il paese delle prescrizioni, ma non per le cartelle della Equitalia Gerit spa!

Intanto, scopro che mia figlia non è più minorenne, ma ha solo meno di diciotto anni. La cosa non mi rallegra anzi, mi inquieta un po’. Io potrei considerarmi non più cinquantenne, ma uomo con più di diciotto anni e tornare indietro nel tempo... ma lo specchio è impietoso nel rimandare immagini e non fa sconti.

Primavera inoltrata, 9 giugno di dieci anni fa. Finiva l’aggressione della Nato contro la Jugoslavia. Negli improvvisati campi profughi al confine con l’Albania, dove si erano accampati i kosovari albanesi, prede predilette per giorni e giorni di fotografi, giornalisti e televisioni in cerca di notizie da sbattere in prima pagina... e dove agivano gli umanitari in missioni governative tinte di effimeri arcobaleni, in quei campi... d’improvviso non rimase più nessuno. Arrivederci e grazie, spariti tutti. Guerra finita, Nato vincente, Kfor entrante, profugo lampo tornava a casa.
A cacciare i propri vicini di anni, serbi, rom, goranci, albanesi in disaccordo con l’Uck, rubando loro case, terreni, animali, lavoro, futuro, tutto. Ma pure tutti i giornalisti e le tv e i fotografi e gli umanitari se ne erano tornati a casa. Con l’arcobaleno... Per i serbi, solo pochi occhi a testimoniare il dramma. Fra questi i miei, tristi e pieni di rabbia, rabbia che ancora oggi, a volte, li rende ciechi.

Notizia di oggi, altri operai rumeni morti sul lavoro. In quello, del tutto uguali agli italiani. Ai fascisti dalle forze nuove dico che se mai faranno fiaccolate anche per i rumeni morti sul lavoro, e non solo per quelli che delinquono e che sembrano interessarli molto di più... ci verrò anche io!

Primavera inoltrata, forse troppo. Anche nelle schede elettorali, puntuali, come quasi ogni anno. Sono anni che metto croci sul solito simbolo. Sarà proprio per via di queste croci che questo simbolo continua a dissanguarsi in una emorragia inarrestabile! Ecco perché gli altri cambiano sempre i loro simboli, ecco perché la destra non li ha o, almeno, non li espone nelle schede... è per esorcizzare quella croce che andiamo tutti a segnare. Col tempo, diventa negazione del simbolo.
Propongo, per le prossime votazioni, di poter disegnare qualcosa vicino al proprio simbolo. Magari, disegni come si faceva da bambini. Una casetta, una stradina, un albero e una montagna lontana. E il sole, dietro, pronto a sorgere. Come in un avvenire, davvero ancora possibile.

venerdì 8 maggio 2009

Scempio dello scempio

Si è parlato di dieci anni fa, ieri in ambasciata della repubblica di Serbia in Italia. Dieci anni fa, la guerra, che avrebbe bombardato, fra i tanti obiettivi militari e non, il palazzo della televisione jugoslava con dentro molti operatori fra i quali 16 persone che rimasero uccise. Si è detto che quelle persone sono state ammazzate due volte ma, forse, non sono d'accordo. Le bombe hanno nomi e cognomi e non ammettono distrazioni o concorsi di colpa. E si è detto pure che quello poteva essere obiettivo reale perchè la televisione faceva propaganda al dittatore Milosevic ma, forse, non sono d'accordo. Milosevic, dittatore anomalo, novello Hitler che lasciava alle opposizioni il governo delle maggiori città serbe... che lasciava manifestare tutti i giorni contro se stesso, senza polizia a caricare i manifestanti come accadrebbe in un qualunque democratico stato occidentale... che lasciava il potere dietro una sommossa detta troppo in fretta popolare contro la legge elettorale che prevedeva il turno di ballottaggio... e che si è fatto ammazzare, lui solo, da un tribunale davvero troppo speciale... No, non sono d'accordo.
Se la propaganda può essere motivo per ricevere bombe allora, a quel tempo, in Italia un vero dio, se fosse esistito, ci avrebbe fulminato all'istante. Perchè la propaganda di guerra veniva fatta ogni giorno, in modo sistematico e scientifico, preparando coscienze sulla necessità di bombardare. Il gioco era truccato, bisogna non dimenticarlo mai. Registi nemmeno tanto occulti, uomini di Nato e di Cia riuscivano a manipolare a loro piacimento l'andamento del teatrino delle marionette politiche italiane. Allora, come ora...
Nel frattempo, il Kosovo è diventato un narcostato, le mafie fanno affari, la Serbia è in ginocchio e l'Albania chiede di appropriarsi dei monasteri ortodossi, mentre il circo degli illusionisti organizza viaggi nella terra dei misteri, dove puoi assaporare, dicono..."l'atmosfera del monastero ortodosso e dei monaci coi loro canti, e la poesia del minareto musulmano, perchè il Kosovo è la terra non solo della violenza ma della convivenza e della coesistenza...".
Maledetto gioco di equilibrismo che tutto nasconde, tutto salta e tutto dimentica, come se nulla fosse mai successo. Intanto la gente continua a morire di guerra. In Serbia, ora, in Jugoslavia, prima... La Jugoslavia, da dove tutti, uno a uno, si sono staccati lasciando Serbia sola. Con i problemi della Jugoslavia. Profughi, sfollati, malati, disoccupati, fabbriche disfatte, lavoro e dignità calpestati. In tutto questo, ancora multietnica. Intanto, a Bond Steel, ex Kosovo, c'è la più grande base americana, pardon... della Nato!... in Europa, che su di noi veglia.
Guarda il caso, in un posto nemmeno sfiorato dai bombardamenti. Forse lo sapevano già che lì non avrebbero bombardato, inquinato, distrutto, devitalizzato? Si, lo sapevano già.
Sapevano che truccavano il gioco. Ma noi, nei rari incontri, facciamo finta di dimenticarlo. E andiamo avanti.
No, il vero scempio è questo. Lo scempio della devastazione delle parole, città che cambiano nome, calpestando la propria storia con il circo degli illusionisti che si accoda, nel nome dell'equidistanza. Così le città si chiamano col nome albanese, città serbe, diventano albanesi in tutto. La parola Liberazione, usata per eserciti di terroristi ammaestrati, corrotti, criminali che non dovevano liberarsi da nessun invasore, da nessun esercito nemico, perde di significato. Ci si può, quindi, liberare dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, da una terra che non ci piace più.
Ormai il circo è partito, non si fermerà. La vera lotta andrebbe condotta nello smascherare questi circensi. Sono loro che stanno continuando il gioco sporco e truccato della guerra, iniziato molto più di dieci anni fa. Questo lo sanno molto bene le donne rimaste vedove già nel 1998, a guerra lontana, i loro mariti fatti a pezzi da eserciti criminali che chiamavano di Liberazione. Scempio dello scempio.

lunedì 6 aprile 2009

Cartolina da Kosovska Mitrovica, Serbia...

Eccomi qui, davanti a una birra, senza più un euro, senza più una lira, senza più energie, seduto a un tavolino di un anonimo hotel di Belgrado.
Non c’è più molto nella mente, stanchezza si fa strada, ripone emozione nei cassetti già pieni della memoria. Occorre svuotare, svuotare, tagliare e ricominciare.
Prolece je, è primavera… nell’aria, nei vestiti delle ragazze, sui rami degli alberi, nei suoni del mattino. Le potature daranno i frutti. Ma occorre svuotare, svuotare e tagliare… la memoria, da orpelli ingombranti, per lasciare rami vivi che andranno a farsi largo e strada verso l’alto, a raggiungere il cielo, e i cuori, rimasti a terra. Con i frutti dell’estate.
Mitrovica rimane là, confine dell’assurdo, coi suoi dottor House veri e con malati che non guariranno… occhi di bambina, che non avranno Venezie a ricordo.
Serbo, io ormai mi sento così… ma questo è verbo, semplice verbo, coniugato al presente, a monito di un futuro, paura e lacrime.
Serbo, cartolina che non spedirò…
Serbo, frasi dedicate, testimoni di un incontro…
Serbo, ricordo esile, di fragilità indotte…
Serbo, immagine di Serba, bambina di Mitrovica, vestita a metastasi…
A chi dare, la colpa?
A questa birra, che non è fresca… a turisti per caso, italiani o inglesi o tedeschi, che differenza fa, seduti avanti a me, qui per lavoro, qui per chi, qui perché… al mio muovermi, folle tra le folle, individuo perso alla ricerca di giustizia, dove ingiustizia regna.
La penna scivola, la birra finisce, calda.
Barcellona in TV, torna il calcio planetario, e tornano occhi di bambino sorridente, battuto al gioco dei ricordi, nomi di famosi calciatori lontani da noi, lontani da tutto, lontani da Mitrovica. Mitrovica è lontana. Qui, ora, è Serbia ma Mitrovica non lo sa.
Mitrovica senza luce, Mitrovica senza acqua, Mitrovica senza vita. Mitrovica che a nord perde la speranza. Ma lotta e resiste, vestita a metastasi. Esile, fragile, senza Venezie a ricordo, a sera s’addormenta, senza più mattino nei pensieri.

lunedì 23 marzo 2009

24 Marzo 1999.

Dieci anni fa, a quest'ora, non lo sapevo...
che un'altra infame guerra, chiamata pure "umanitaria", m'avrebbe portato Jugoslavia in casa...
che avrei conosciuto una bambina, la sua storia e le sue parole...
che un suo sorriso avrebbe dato nome a un libro...
che avrei raccontato di artisti della vita vivi per miracolo, miracolo senza dio né santi, ma roba di uomini e donne, forti...
che uomini sarebbero stati ridotti in umiliazione, quando non in pezzi...
che altri sarebbero scomparsi, poi cercati per sempre, con speranze che si sarebbero fatte illusioni...
che il sogno di una società diversa stava definitivamente crollando, sotto i colpi della menzogna e del servilismo, cose tutte italiane, Alberto Sordi o Totò, Berlusconi o D'Alema, Iraq o Jugoslavia, Afghanistan o Palestina.
Dieci anni fa, a quest'ora non lo sapevo...
che Rosa sarebbe tornata in Jugoslavia per pochi giorni, giorni divenuti, invece, anni...
che la Jugoslavia sarebbe rimasta Serbia, sola ma in compagnia di profughi, disastri, miserie e malattie...
che Jèlena sarebbe rimasta con la piccola Dràgana, sola ma vivendo di illusioni, e le illusioni fanno male...
che Andjela avrebbe perso un dentino a casa mia, ma avrebbe ritrovato il papà, anche se solo in fossa di cimitero, dopo fosse più grandi e affollate di simili...
che Josif, con negli occhi il cagnolino lasciato in Kosovo, mi avrebbe regalato rakija...
che un pallone avrebbe fatto miracoli, ma non su un campo di calcio...
che una luce, sarebbe rimasta accesa per sempre anche nelle mie, di notti.
Dieci anni fa, a quest'ora non lo sapevo...
che Tragedia e Amore vanno insieme, a scavare strade inciampando di vita e di morte.
O, forse, lo avevo solo dimenticato.

martedì 10 marzo 2009

Fiori e Nuvole.

Il ristorante "al Fico Vecchio" era una antica stazione di posta per il cambio dei cavalli.
Sapientemente ristrutturata, aiutata dall'atmosfera suggestiva, unica ed irripetibile che le sue mura cinquecentesche sono in grado di ricreare, è ora luogo caratteristico immerso nei Castelli Romani.
Anni fa, due ragazzi erano soliti rifugiarsi in quelle atmosfere, dove colmavano la loro sete bevendo l'acqua limpida e fresca da una vicina fontanella, che sapevano trasformare in discreta e sensuale. Per gioco, si vollero chiamare Nuvola del cielo e Fiore di bosco, perchè cielo e bosco erano i rispettivi ambienti ideali.
Era il 10 di marzo di ventitrè anni fa, quando tutto ebbe inizio. Primavera si annunciava. Da allora, quei due ragazzi non conobbero inverno.